Diverse evidenze sperimentali sembrano indicare un ruolo importante giocato dalla vitamina K nel metabolismo osseo. Un suo deficit, infatti, è stato collegato ad aumentato rischio di fratture in studi osservazionali e trial clinici. Per fare il punto, un gruppo di lavoro guidato da Maria Fusaro, ricercatrice presso il Cnr di Pisa e l’Università di Padova, ha realizzato una review pubblicata su Nutrients dei dati a oggi disponibili, suggerendo la necessità di avviare ulteriori studi con sufficiente potere statistico per fare luce in un ambito clinico sicuramente promettente.
La vitamina K è una vitamina liposolubile che, nella forma biologicamente attiva, garantisce la corretta funzionalità di alcune specifiche proteine implicate nel legame del calcio nelle ossa e in altri tessuti, e nella coagulazione del sangue
La vitamina K1, nota anche come fillochinone, è prodotta dalle piante e si trova nelle quantità più elevate nelle verdure a foglia verde – perché è direttamente coinvolta nella fotosintesi – e può essere considerata la forma vegetale della vitamina K. Questa è in grado di svolgere le normali funzioni biologiche della forma invece tipica dell’organismo animale, la K2 o menachinone, ma può comunque venire convertita in essa; tale processo può avvenire grazie al microbiota intestinale o a livello endogeno.
La flora batterica è anche in grado di allungare la catena laterale isoprenoide della vitamina K2 per produrre tipologie diverse di menachinone, in particolare gli omologhi MK-7 e MK-11. Tutte le forme diverse dalla MK-4 (menatetrenone) possono essere prodotte solo da organismi batterici anaerobi, che le sfruttano per la loro respirazione cellulare. L’MK-7 e le altre forme di vitamina K2 di origine batterica mostrano attività identica a al menachinone ordinario e non è chiaro se possano avere una maggiore utilità.
La vitamina K può essere anche ricavata in maniera sintetica, ottenendo la vitamina K3 o menadione, la K4 e la K5. Tuttavia il menadione interferisce con la funzione del glutatione rivelandosi tossica, pertanto non viene più utilizzata come rimedio alla carenza di vitamina K.
La vitamina K, attraverso la carbossilazione dell’osteocalcina, permette la corretta mineralizzazione delle ossa. Inoltre, di recente si è evidenziata una sua azione come ligando del Steroid and xenobiotic receptor espresso a livello degli osteoblasti, un effetto che agevola la produzione di proteine del collagene, componente fondamentale per la qualità dell’osso.
“Nella nostra review abbiamo preso in esame solo gli studi che avevano come outcomes l’evento fratturativo” prosegue Fusaro. “In maggioranza sono studi giapponesi, perché lì già dal 1960 il menatetranone, ovvero l’Mk4, è un farmaco per l’osteoporosi e molti lavori ne evidenziano una correlazione con la riduzione delle fratture. C’è anche un trial clinico randomizzato, ben disegnato, dell’Università di Toronto che sottolinea come in donne in menopausa con osteopenia, trattate con 5 mg/die di Pk, si registri una riduzione di oltre il 50% di eventi fratturativi dopo due anni di follow-up, pur con densità minerale ossea invariata”.
Quali indicazioni, dunque, per identificare una carenza e suggerire un’integrazione?
“Purtroppo, non essendoci sistemi che quantifichino i fabbisogni specifici dei vari vitameri K del singolo individuo, è difficile stabilire quando e di quanto è necessaria una supplementazione”, conclude Fusaro. “Considerando gli studi di intake e la dieta del mondo occidentale, in rapporto all’età verosimilmente dovremo tutti considerare una supplementazione con vitamina K. Sono necessari ulteriori studi sugli effetti della supplementazione di vitamina K a dosi fisiologiche e farmacologiche e su quale sia la dose richiesta per garantire la salute ossea e vascolare.”
Fonti: nutrienti e supplementi