Nei pazienti obesi, diabetici e/o con sindrome metabolica, è frequente il riscontro di ipomagnesemia al punto che un gruppo di clinici e ricercatori milanesi ha voluto approfondire il legame attraverso una revisione dei dati presenti in letteratura pubblicata su Nutrients.

L’ipomagnesiemia è definita come una concentrazione sierica di magnesio <1,8 mg/dL (<0,70 mmol/L). Le possibili cause comprendono un’inadeguata assunzione o assorbimento di magnesio o un’aumentata escrezione dovuta a ipercalcemia o ad alcuni farmaci.

Tra le più rilevanti, come sottolineano gli autori, è proprio l’insufficiente apporto con la dieta. Diversi studi, infatti, dimostrano che la maggior parte della popolazione europea e nordamericana consuma meno delle dosi giornaliere raccomandate, ovvero, 420 mg per gli uomini e 320 per le donne. Un deficit principalmente legato alla dieta di tipo occidentale che spesso contiene solo il 30-50% di quanto raccomandato.

“La carenza moderata o subclinica di Mg++ induce infiammazione cronica di basso grado la quale provoca il rilascio di citochine infiammatorie e la produzione di radicali liberi, che esacerbano uno stato infiammatorio preesistente” si legge nello studio. “Inoltre, emerge con sempre maggiore evidenza che un’ipomagnesemia può promuovere l’infiammazione cronica sia direttamente che indirettamente modificando il microbiota intestinale. Per questo motivo la carenza di Mg++ è considerata un fattore di rischio per condizioni patologiche caratterizzate da infiammazione cronica, come ipertensione e disturbi cardiovascolari ma anche sindrome metabolica e diabete”.

Per quanto riguarda il trattamento, emergono diverse criticità a partire, per esempio, dal corretto inquadramento del deficit, giacché la concentrazione sierica di magnesio, anche quando viene misurato lo ione magnesio libero, può risultare normale anche in presenza di ridotti depositi intracellulari o ossei di magnesio.

Per l’integrazione, inoltre, non c’è accordo su dosaggi e durata. In letteratura i dosaggi variano da 250 a 600 mg/die, per un tempo di somministrazione che oscilla tra 7 giorni a sei mesi. Nemmeno c’è consenso sul tipo di sale di magnesio più indicato: la biodisponibilità ne condiziona il dosaggio e i possibili effetti collaterali, soprattutto a livello intestinale.

Così concludono gli Autori: “Nonostante alcuni aspetti da chiarire, è comunque certo che un corretto apporto di Mg++ migliora la sindrome metabolica riducendo pressione sanguigna, iperglicemia e ipertrigliceridemia. Ciò sembra dipendere da una modulazione dell’espressione genica e del profilo proteomico nonché da un’influenza positiva sulla composizione del microbiota intestinale e sul metabolismo delle vitamine B1 e D. A livello clinico, sono necessari ulteriori studi per definire quali sali di magnesio e quali dosaggi garantiscano i risultati migliori. Inoltre, lo studio del microbiota in soggetti ipomagnesiemici potrebbe fornire spunti interessanti e suggerire approcci dietetici mirati ad armonizzare l’ecosistema microbico intestinale. Infine, andrebbero identificati biomarcatori in grado di valutare l’omeostasi del Mg++ e si dovrebbero approfondire studi sul ruolo del magnesio intracellulare, dalla regolazione del metabolismo al rilascio di mediatori infiammatori. Detto questo, considerando la prevalenza mondiale di obesità, diabete di tipo 2 e sindrome metabolica, la correzione della dieta ed eventualmente, l’integrazione di Mg++ potrebbero rappresentare uno strumento prezioso a basso costo per contenerne la diffusione”.

 

Fonti: Manuale MSD; Nutrientri e Supplementi

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